Capita spesso che il giovane psicologo si chieda quale sia il giusto atteggiamento da tenere in terapia. Dobbiamo essere accondiscendenti oppure frustrare il paziente? Ci vuole empatia o è preferibile maggior fermezza?
Naturalmente la risposta non è univoca ma dipende in buona sostanza dalla persona che abbiamo in carico. Se con certe personalità, connotate magari da fragilità o ipersensibilità, un approccio empatico e “delicato” è necessario per costruire con loro una relazione, con altre – ad esempio tendenti alla sopraffazione e alla sfida – può essere necessario veicolare sin da subito decisione e piena contezza del proprio ruolo professionale.
Questo è bene precisarlo poiché troppo spesso viene enfatizzata l’equivalenza tra psicologia ed empatia dimenticandosi che l’empatia, in realtà, è una delle tante abilità relazionali che possiamo giocare nella relazione con il paziente. Sovente poi l’empatia viene confusa con il maternage e l’idea quindi del terapeuta buono sempre e comunque invade la nostra stessa rappresentazione come professionisti della cura. Diciamolo allora subito con chiarezza: empatia e maternage sono due cose ben diverse.
Quando siamo empatici, infatti, ci mettiamo nei panni dell’altro ovvero diventiamo abili a discernere che cosa ha bisogno ora nella relazione con noi. In un certo senso è quindi vero che dobbiamo essere empatici sempre: provare cioè a capire l’altro senza giudicarlo o pretendere che sia qualcosa di diverso da ciò che egli è. Fatto ciò, la risposta che il paziente necessita non è detto che in quel momento sia per forza di manifesta empatia ovvero di piena comprensione e vicinanza del terapeuta alle sue ragioni. Potrebbe ad esempio essere utile confrontare la persona su alcuni temi, poiché arroccata sulle proprie certezze e poco disponibile al dialogo. Al netto di tutte le incomprensioni e i micro-conflitti che ne potrebbero insorgere (inevitabili e fondamentali in ogni relazione terapeutica), l’esperienza di una persona che vive una relazione empatica sarà complessivamente quella di sentirsi capita.
Al contrario, l’esperienza di una persona che vive una relazione di maternage sarà invece quella di sentirsi coccolata e sempre accontentata. L’errore che dobbiamo evitare, come psicoterapeuti, è proprio quello di compiacere bisogni poco evolutivi o di solleticare il narcisismo dei nostri pazienti. Una terapia, insomma, non dovrebbe fare bene più di quanto non sia strettamente necessario. Altrimenti facciamo qualcosa che il paziente potrebbe fare da solo, lo giustifichiamo quando avrebbe invece bisogno di ricevere uno spunto che lo riporti a sé, lo viziamo ed elogiamo oltremodo esagerandone le sue qualità e così via. Il maternage diventa allora un modo per evitare il conflitto e tenere il paziente attaccato al seno buono del proprio terapeuta. Un seno che allatta ma tiene legati, che sazia ma non fa crescere sani. Ma soprattutto dobbiamo sempre ricordarci che il terapeuta è lì per aiutare il proprio paziente, non per ricercarne la sua piena approvazione. Nemmeno lui ha bisogno di maternage e adulazioni che lo facciano sentire apprezzato, né di prevenire svalutazioni magari temporanee e inevitabili. Deve essere intero, comprensivo quando serve ma anche confrontativo se necessario, costruendo così col proprio paziente un’esperienza relazionale autentica e piena.
Capire qual è il confine, spesso sottile, tra rispecchiamento empatico e maternage, bisogni immaturi e istanze evolutive sta allora nell’abilità clinica che ogni terapeuta, piano piano, deve imparare ad affinare. Anche perché è valido naturalmente anche il principio inverso: una terapia non dovrebbe fare male più di quanto non sia strettamente necessario. Ma soprattutto una terapia non dovrebbe nuocere più del problema per il quale il paziente si è rivolto a noi. Ecco perché certe modalità relazionali eccessivamente frustranti diventano esperienze (ri)traumatizzanti per i pazienti e andrebbero quindi totalmente evitate. Se più sopra abbiamo distinto tra empatia e maternage, può essere allora utile discernere qui tra frustrazione ottimale e traumatizzazione. La prima rappresenta un’esperienza di “delusione armonica” che, appunto, non chiude né blocca ma apre in realtà nuovi orizzonti di sviluppo e di esperienza. La seconda, al contrario, lascia insoddisfatti e arrabbiati, fa sentire i nostri pazienti incompresi e prigionieri di quel copione che ancora una volta si ripete.
In psicoterapia alcuni modelli terapeutici considerano fondamentale la costruzione di una relazione empatica, laddove altri ritengono importante prima di tutto “svegliare” il paziente mettendolo di fronte a quelle verità che evita a tutti i costi di vedere. Funzione materna e funzione paterna sono in realtà entrambe necessarie ma, come abbiamo visto, dannose se assolutizzate: il bravo terapeuta saprà dunque integrarle e comprendere quando prediligere l’una oppure l’altra, senza contrapporle in modo dicotomico o ideologico.
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