A tanti sarà capitato di assistere a situazioni di emergenza – incidenti automobilistici, malori improvvisi di persone sconosciute, litigi o addirittura pestaggi – e di aver vissuto sulla propria pelle il terribile dilemma: intervengo oppure no?
Vediamo allora quali sono i fattori determinanti un nostro eventuale aiuto e su quali presupposti si fondano.
- Un primo aspetto da considerare fa riferimento alla nostra capacità di metterci nei panni dell’altro. Difficilmente interveniamo se non sentiamo un minimo di empatia dinnanzi a qualcuno in difficoltà. Eppure talvolta la decisione di intervenire è basata non tanto sull’attivazione emotiva (“sentire il dolore dell’altro”) ma dipende invece dall’educazione ricevuta: ho imparato che in questi casi è la cosa giusta da fare e dunque mi comporto così. Parrebbe, insomma, che aspetti morali e affettivi concorrano a determinare l’eventualità di un nostro intervento in soccorso delle vittime. Eppure, se il fattore sopra descritto fosse sufficiente per agire, ogni persona dotata di un minino di etica e di cuore si fionderebbe in mezzo ad una rissa o tra le lamiere di un incidente in Tangenziale. La situazione invece è più complicata e coinvolge inevitabilmente altri fattori.
- Ce n’è intanto uno di carattere sociale. Latané e Darley, psicologi sociali americani, attingendo ad un episodio di cronaca nera - la drammatica vicenda di Kitty Genovese, barbaramente assassinata senza che nessuno intervenisse in suo soccorso - coniarono i concetti di “ignoranza pluralistica” ed “effetto spettatore”. In buona sostanza, di fronte ad un evento nuovo e inaspettato, le persone osservano il comportamento degli altri per capire che cosa fare ma se tutti fanno così…alla fine nessuno agisce! La presenza di più persone che assistono alla scena, sostengono gli psicologi, creerebbe una vera e propria diffusione di responsabilità. E’ come se ciascuno si domandasse: dato che ci sono anche altre persone presenti, perché dovrei intervenire proprio io? Il paradosso, quindi, è che il rischio di rimanere inermi aumenta all’aumentare…dei potenziali soccorritori! Se questa teoria fosse però onniesplicativa, ogni volta che assistiamo ad un evento emergenziale e siamo gli unici presenti, interverremmo automaticamente. Eppure talvolta ciò non avviene anche se siamo persone umane e morali, come descritto sopra. Come si spiega tutto ciò?
- Per rispondere dobbiamo prendere in prestito un altro concetto fondamentale della psicologia: quello di self-efficacy (autoefficacia percepita) coniato da Albert Bandura. Essa comprende una serie di credenze riguardo a se stessi, in un settore particolare, ed è direttamente connessa all’autostima. Se, ad esempio, mi percepisco autoefficace nel dare gli esami all’università, affronterò queste situazioni a viso aperto e con energia positiva. Che cosa c’entra tutto ciò con la nostra argomentazione? Immaginiamo una persona che assiste ad un incidente e vede qualcuno a terra oppure si imbatte in un pestaggio alquanto violento. In presenza di self-efficacy (perché magari è un medico oppure pratica da anni arti marziali) è più probabile che la persona intervenga, in caso contrario potrebbero emergere altre emozioni (shock di fronte a sangue e ferite, paura di non saper competere nel confronto fisico, ecc.) che potrebbero ostacolare l’intervento.
- Per finire, una considerazione più generale che riguarda i tempi attuali. Il fatto che la nostra vita sia sempre più un mix di virtuale e reale (con il primo che sta ormai prepotentemente incalzando il secondo), contribuisce a renderci sempre più spesso disarmati di fronte a situazioni come queste. Un’esistenza sempre più “schermata”, ovvero a lungo trascorsa dietro un monitor, partorisce un’umanità impreparata a vivere il mondo fuori e a sostenere emergenze fatte di carne e sangue…reali! E allora anche in quei frangenti tiriamo fuori il cellulare, quale che sia l’intenzione (chiamare aiuto oppure immortalare morbosamente l’attimo), cercando ancora una volta un appiglio nel ben più governabile mezzo virtuale.
Insomma, fermo restando che la nostra natura umana e sociale dovrebbe spingerci a trovare sempre il modo per intervenire in sostegno di una vittima, l’eventualità che le nostre buone intenzioni si traducano in azione dipende da una molteplicità di fattori. Dovremmo quindi mostrare cautela prima di utilizzare categorie semplicistiche - buoni/cattivi, indifferenti/eroi - nell’esaminare il comportamento di coloro che assistono a questi tragici eventi.
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