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Immagine del redattoreMatteo Limiti

LO PSICOLOGO IN EQUIPE

Ad eccezione dell’attività svolta in studio privato – condotta principalmente in solitaria – quello dello psicologo è certamente un lavoro d’equipe. Se, come recita un proverbio africano, “per educare un bambino ci vuole un intero villaggio” è altresì indiscutibile che per agire un ruolo di cura, o più genericamente psicologico, c’è spesso bisogno di una comunità di persone – ovvero di un’equipe. Strumento preziosissimo proprio in ragione della sua eterogeneità umana e professionale, l’equipe assolve a diversi funzioni: confronto teorico ed esperienziale, sostegno emotivo, integrazione di visioni, metodi e strategie. Ogni equipe è quindi un gruppo di lavoro ovvero un insieme di persone che si incontrano più o meno periodicamente con un obiettivo manifesto. Chiunque abbia sperimentato questo setting, credo possa convenire con me che l’equipe migliora sensibilmente il nostro lavoro: sia da un punto di vista tecnico-professionale (nei primi anni da psicologo la partecipazione alle equipe è stata per me una grande occasione formativa) che personale – preservando il professionista dall’isolamento e da rischi di eccessiva autoreferenzialità.



Eppure, e qui arriviamo alle note dolenti, non è affatto scontato che un’equipe…funzioni. Un gruppo di lavoro, infatti, è efficace quando nonostante simpatie, antipatie, affinità e rivalità riesce a rimanere concentrato sul compito. Facciamo un esempio. Siamo nel bel mezzo di una riunione d’equipe e dobbiamo decidere il programma terapeutico di un paziente. Parla un collega che proprio non sopportiamo il quale, tuttavia, esprime un’opinione che condividiamo. In un gruppo equilibrato e consapevole, senza escludere reciproche idiosincrasie, si riesce a mantenere il focus sull’obiettivo: in questo caso, cioè, decidere che cosa è meglio per il nostro paziente. Spesso, come diceva Bion – padre della psicoanalisi dei gruppi –, i gruppi di lavoro sono invece dominati dagli “assunti di base”. Ovvero, aspetti inconsci non direttamente collegati al compito prendono il sopravvento finendo per sabotare il mandato stesso che si è data l’istituzione. Nell’esempio appena citato, potremmo allora esprimere parere contrario a quello del collega in virtù della nostra antipatia per lui. I presenti, che conoscono la nostra rivalità, noterebbero allora questa frizione finendo a loro volta per schierarsi. Così facendo - in preda ad un vero e proprio contagio emotivo - perderemmo completamente di vista l’obiettivo manifesto (il bene del paziente per il quale siamo chiamati ad intervenire) lasciandoci coinvolgere da emozioni soverchianti e distruttive.


Sebbene ogni gruppo di lavoro sia più o meno animato da simili dinamiche, è fondamentale però che esse non diventino prioritarie arrivando ad ostacolare il processo costruttivo e maturativo del team. Ciò implica il controllo, da parte di tutti i membri dell’equipe, delle violente emozioni che si manifestano, la gestione della frustrazione e uno sforzo complessivo alla cooperazione. A volte invece il gruppo si lascia guidare da processi difensivi che possono minarne l’efficacia. Ad esempio quando è preda dell’ira e dello scontro oppure in quei casi di completa adorazione verso un leader investito di aspettative salvifiche o in altri frangenti ancora. Proprio come nell'esempio sopra: un caso di triangolazione (termine noto nella terapia famigliare e non solo) dove il paziente, suo malgrado, si trova in mezzo (viene triangolato, appunto) a dinamiche conflittuali che interessano i curanti.

Ecco perché un’equipe, per poter funzionare, ha bisogno di persone mature ed equilibrate. Altrimenti il lavoro di gruppo viene stravolto da personalismi che non hanno a cuore né il bene dell’utenza né quello del team ma corrono dietro ad angosce (o tornaconti) personali. Nelle equipe è allora importante la figura del leader (il coordinatore o il direttore) ed è fondamentale che tale ruolo venga ricoperto da una persona risolta e autorevole. Ma, al tempo stesso, è auspicabile che i gruppi di lavoro vadano anche in supervisione (soprattutto quelli che lavorano in certi contesti e con determinate utenze) proprio perché il leader, essendo a sua volta parte del gruppo, non è immune dal contagio di certe dinamiche disfunzionali. La terzietà del supervisore è dunque garanzia di equilibrio e di cura dinnanzi alla pervasività della vita fantasmatica gruppale, aiutando i membri del team ad elaborarla e a ripristinare un clima di benessere utile al raggiungimento dei suoi obiettivi manifesti.


Le equipe, in psicologia ma probabilmente non solo, hanno dunque bisogno di membri (e leader) maturi, che abbiano lavorato su di sé e sui propri nodi irrisolti. Professionisti, cioè, che sappiano mettere da parte i loro bisogni personali per difendere e rappresentare l’unità del gruppo e gli obiettivi che esso intende perseguire. Se il leader o i singoli membri non hanno raggiunto tale maturazione individuale è molto difficile che l’equipe possa lavorare positivamente. Tanto, anzi tantissimo, ho imparato e continuo ad imparare dal lavoro d'equipe: credo perciò profondamente nella ricchezza dello scambio tra colleghi, nella bellezza del lavoro di gruppo e nelle sue possibilità di accrescere esponenzialmente la nostra efficacia come psicologi…e sono altresì convinto che ogni equipe, per funzionare, abbia bisogno dello sforzo ostinato e indefesso di ciascuno di noi.

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