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  • Immagine del redattoreMatteo Limiti

LA SEPARAZIONE NELLA COPPIA: TRA DOVERE E FELICITA'

Un giorno venne in seduta da me un paziente di mezz’età che, nonostante soffrisse da molto tempo per un matrimonio insoddisfacente, non riusciva a concepire l’eventualità di separarsi. Sin qui nulla di originale né di particolarmente avvincente. L’uomo apparteneva ad una famiglia di imprenditori da generazioni, con un carattere così preciso da sfociare quasi nella pignoleria, corretto e di buoni principi. A parte una certa rigidità, non tale da definirsi patologica, non faceva trasparire alcun elemento degno di nota: una vita dedicata al lavoro e alla famiglia, uno stile di vita sano, buone amicizie e svariati hobby, un pensiero prettamente concreto e poco introspettivo. Era sposato da quasi vent’anni e, ormai da cinque, la relazione si era spenta cedendo il passo alla noia e ad una continua conflittualità che il paziente affrontava tuttavia con grande capacità di sopportazione. Sebbene fosse convinto di non amare più sua moglie, non riusciva a staccarsene. L’uomo era una persona con una vita ricca di interessi e relazioni e, come più volte gli rimandai, sufficientemente forte per ricominciare daccapo un’altra volta. Eppure non era quello il punto principale: c’era invece qualcosa di ben più profondo.



Colloquio dopo colloquio, arrivammo insieme ad una scoperta interessante. Emerse come l’educazione famigliare, improntata a intransigenti principi doveristici, gli aveva (neanche troppo implicitamente) passato il messaggio che nella vita è più importante essere buoni…che felici. Il nostro, quindi, non ce la faceva proprio a lasciare sua moglie poiché - così facendo - avrebbe messo il suo bene, la sua felicità appunto, davanti a tutto il resto. Eppure a poco servì focalizzare ciò in terapia: questa "pedagogia della colpa" era per lui così inossidabile e talmente coerente con la sua persona (in psicologia diremmo “egosintonica”) da non essere minimamente disposto/capace di metterla in discussione.

Come sovente capita nei momenti di impasse, la terapia si sbloccò per un evento inaspettato, extra-terapeutico. L’uomo un giorno arrivò in seduta con un’aria visibilmente sollevata. “Che cosa è successo?” – gli chiesi, notando subito un che di inusitato. “Dottore” – mi disse raggiante – “ho scoperto che mia moglie mi tradisce”. Ovviamente per quest’uomo la notizia del tradimento della donna era più che positiva perché lo autorizzava immediatamente ad una contromossa. A quel punto, cioè, chiudere la relazione con la moglie non l’avrebbe più qualificato come cattivo poiché la sua scelta sarebbe stata conseguente ad una mancanza da parte della donna e, come tale, legittima e giusta. Insomma, di colpo le cose per il mio paziente si misero nel verso giusto: l’essere buono, corretto, leale e l’essere felice iniziavano a remare nella stessa direzione… L’evento fortuito impedì quindi all’uomo di fare in prima persona una fatica che sarebbe stata per lui evolutiva e sbloccò una situazione che, altrimenti, avrebbe trascinato ancora a lungo.

La separazione nella coppia, come noto, è un tema sicuramente articolato che chiama in causa diversi fattori: psicologici ed economici, etici e affettivi, individuali e famigliari. I tempi sono cambiati, è vero: oggi siamo più liberi nelle relazioni e talvolta corriamo il rischio opposto ovvero quello di non riuscire ad impegnarci in modo stabile e duraturo. Eppure queste forme invischiate di rapporto, dominate da un senso di colpa punitivo (non quello sano che, anzi, ben venga che ci sia) o da altre istanze poco evolutive, sono tuttora molto frequenti. Spesso nel mio lavoro mi capita di incontrare situazioni dove alla base della difficoltà a separarsi c’è ancora il tema etico-affettivo della fedeltà famigliare che viene posto in antagonismo ad un concetto di felicità che farebbe perdere l’equilibrio allontanando certamente da porti sicuri e dalle aspettative che gli altri ripongono su di noi. Lasciare il partner, in questi casi, significa allora tradire se stessi e la propria famiglia e quei valori che si credevano una bussola che ci avrebbe orientato eternamente nel mondo con piena contezza di chi siamo e di dove vogliamo andare.

Non di rado in psicoterapia si devono allora affrontare i danni di una certa educazione che, laddove eccessivamente sbilanciata o polarizzata (dovere/piacere, io/gli altri, individuale/famigliare), impedisce alla persona di svilupparsi e realizzarsi pienamente. Il nostro paziente, insomma, ha trovato la strada spianata ma ha perso un’occasione per diventare più “intero” e affrontare certi nodi famigliari (e probabilmente anche inter-generazionali) con i quali lui, o qualcun altro dopo di lui, prima o poi dovrà fare i conti.

Separarsi per quest’uomo costituiva una fatica immensa poiché implicava una tripla separazione: dalla famiglia, dalla moglie e, in un certo senso, anche da sé – ovvero dalla persona che era sempre stata. Eppure era e rimane l’unica strada verso uno sviluppo pieno della propria personalità, che contempli la possibilità di scrollarsi di dosso identificazioni ormai desuete…per poter (ri)nascere nuovamente.



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