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  • Immagine del redattoreMatteo Limiti

FENOMENOLOGIA DELLA GENTILEZZA

Alcuni anni fa ho partecipato ad un evento condotto da un uomo d'affari nostrano, il quale predicava quale chiave del suo successo la gentilezza. Nessun segreto particolare dietro ai suoi risultati eccellenti e al suo altrettanto corposo fatturato, se non un mero imperativo ad essere gentile con il prossimo. Comportarsi gentilmente col proprio simile, argomentava il succitato guru parafrasando concetti tutt’altro che nuovi nel panorama della psicologia e non solo, aumenta infatti la probabilità che egli faccia lo stesso con noi. Equivalenza pragmaticamente vincente il cui significato più profondo ho tuttavia afferrato solo di recente parlando in studio con un mio paziente. L’uomo mi raccontava come talvolta, nel suo lavoro, quando qualcuno si mostrava gentile con lui avvertiva un fastidio non meglio precisato e un tentativo sottile di controllo come se l’altro, in fin dei conti, si aspettasse qualcosa in cambio.



“Riconoscere per essere riconosciuti” è notoriamente una delle regole che animano da sempre il palcoscenico delle relazioni umane: ti do ragione non perché credo tu ce l’abbia ma perché, così facendo, farai lo stesso con me. Quella che il nostro uomo d'affari chiama gentilezza è allora piaggeria, astuto opportunismo per raggiungere i propri scopi, finta prosocialità che maschera in realtà intenti predatori e tornaconti personali. Una “gentilezza di scambio”, insomma, che ha poco a che fare con le anime genuinamente gentili. Una tattica relazional-commerciale sicuramente legittima ed estremamente efficace in certi settori, si badi bene però a non chiamarla gentilezza.


Ma l’articolato panorama delle (presunte) gentilezze non si esaurisce certo qui. C’è poi anche quella mafiosa, che ha il sapore della minaccia e guai a rifiutarla. Ad essa si risponde di solito con una “gentilezza spaventata”: sono gentile con te perché ti temo e voglio stare al sicuro, mi mostro gentile così non mi farai del male. E, ancora, la gentilezza seduttiva, che dietro alle sue moine irresistibili vuole appunto “condurre a sé”. Ma la mia preferita è senza dubbio la gentilezza delle commesse dei negozi: a sentir loro mi sta sempre bene qualsiasi cosa indossi!


Eppure la gentilezza, quella vera, la riconosci subito: non gonfia l’ego ma emoziona, non è strategica bensì spontanea, non accresce il potere ma la connessione con l’altro. Anzi, come in un atto d’amore, nella gentilezza l’io arriva quasi a dissolversi, si dona a chi ha davanti senza chiedere nulla in cambio. Assomiglia alla gentilezza di cui parla Eugenio Borgna – voce illuminata della psichiatria italiana. Un sentimento, cioè, che non fa rima con opportunismo e accondiscendenza ma è invece sinonimo di fragilità e tenerezza e rappresenta, tra gli altri, un ingrediente fondamentale della cura (a maggior ragione quando ci avviciniamo alla grave sofferenza psicologica).

Insomma, caro saggio e "gentil" signore, chiamiamo le cose col proprio nome. Anche perché è soprattutto di vera gentilezza che abbiamo bisogno oggi: che non costruisca vanagloria ma autentiche relazioni.

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