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  • Immagine del redattoreMatteo Limiti

E' MEGLIO LO PSICOLOGO PUBBLICO O QUELLO PRIVATO?

Psicologo pubblico e psicologo privato sono evidentemente psicologi entrambi, eppure il loro lavoro si distingue per un’infinità di variabili: la presenza dell’istituzione e il ruolo dell’equipe, la durata della presa in carico, l’obbligo di referto e di denuncia e così via. Tra le tante differenze c’è anche il rapporto col tema del denaro e le possibili implicazioni, etiche e deontologiche, collusive oppure mature, che tale questione assume nella presa in carico terapeutica.



Nel pubblico, il professionista psicologo prende generalmente uno stipendio fisso - ad esempio lavora sempre e comunque 8 ore a settimana, magari per un cps oppure un consultorio, e il suo guadagno è dunque definito. Il suo rapporto economico con l’istituzione è allora suscettibile di creare, tra le altre, due possibili dinamiche che incidono in modo diverso nel rapporto di cura.


1) Innanzi tutto non è il paziente a pagarlo e, se questi dovesse abbandonare la terapia, gliene daranno sicuramente un altro che prenderà il suo posto. Ciò potrebbe allora spingere lo psicologo ad affrettare la chiusura del percorso con quei pazienti coi quali fa fatica, o non si è creata una reciproca sintonia, oppure a mostrarsi svogliato e poco attento senza temere che abbandonino la terapia. In altri casi potrebbe proporre un passaggio-caso ad un collega adducendo scuse diverse, dall’incompatibilità di orari ad esigenze più squisitamente cliniche. Diversamente dal privato, tali scelte non intaccherebbero minimamente il suo guadagno. Guadagno che, in ambito pubblico, non di rado è ritenuto insoddisfacente dal professionista con il rischio che questo scarso commitment aziendale influisca sulla motivazione del professionista e, in ultima battuta, sul trattamento in corso. In questi casi l’eventualità da evitare è allora quella di triangolare il paziente, rendendolo suo malgrado strumento indiretto di un attacco che il professionista fa all’istituzione.

Spesso la lamentela del sentirsi poco seguiti nel pubblico nasce proprio da questo retroterra: lo psicologo è stressato e va di fretta, ha tantissimi pazienti ai quali dare retta, che io prosegua o meno non gli cambia niente. Insomma: perché dovrebbe impegnarsi più di tanto? Anzi, talvolta è proprio l’istituzione a metter fretta al professionista dinnanzi ad una lista d’attesa interminabile…

Naturalmente le condotte descritte sono eticamente e deontologicamente scorrette e sono perciò convinto avvengano estremamente di rado. Negare però che il complesso rapporto a tre (paziente-psicologo-istituzione) possa creare simili dinamiche significa rischiare di lasciarsi influenzare anche solo ad un livello subliminale. La nostra preparazione professionale deve allora ammonirci che se non gestiamo tali aspetti, qualora emergano, non stiamo più facendo terapia e, in preda ad altre interferenze, finiamo per tradire il nostro mandato di cura.

Nel pubblico è infatti richiesta al professionista una doppia responsabilità: non deve occuparsi solo del paziente ma, quando l’istituzione non riesce ad essere risorsa, deve gestirne eventuali inadempienze senza riversarle sulla persona in carico. Questo significa lavorare su di sé, riconoscendo e accantonando quei vissuti che rischiano di interferire con la terapia (ad es. impotenza per mala organizzazione, rabbia per guadagno basso e poche possibilità di crescita, stress da sovraccarico lavorativo, ecc.) e, ove possibile, sull’istituzione invitandola in modo costruttivo ad apportare migliorie e cambiamenti. In ultima istanza, anche il paziente va sollecitato ad adattarsi al sistema comprendendone inefficienze e limiti senza perdere però la fiducia nella possibilità di costruire qualcosa di buono con il proprio terapeuta.


2) Naturalmente l’altro lato della medaglia è che nel pubblico, diversamente dal privato, sarà più difficile dubitare che lo psicologo tenga il paziente in terapia anche se non ne ha più bisogno, proprio perché la sua ritenzione in trattamento non incide sullo stipendio. Possiamo allora ipotizzare che le prestazioni non strettamente necessarie avvengano maggiormente di rado.

Quando propongo ad un paziente privato di concludere una psicoterapia (oppure anche solo di diradarne la cadenza), al contrario, mi guarda solitamente stranito. E’ come se volesse dirmi: ma come, io la pago profumatamente tutte le settimane e lei mi propone di concludere? Dev’essersi proprio stufato di me! Il punto naturalmente non è affatto questo e, una volta chiarito, il paziente apprezza la franchezza. Come psicologi, infatti, abbiamo il dovere di proporre la conclusione di una presa in carico se non ha più ragione di proseguire. Uno dei pregiudizi della psicoterapia privata, tuttora diffusissimo, è infatti proprio la sua durata, talvolta percepita come un rapporto di dipendenza alimentato dalla malafede del terapeuta-speculatore.

Naturalmente anche in questo caso una condotta così motivata sarebbe eticamente e deontologicamente scorretta e sono certo sia poco diffusa. Tuttavia non possiamo esimerci dal considerarla una dinamica plausibile nel contesto privato, che richiede perciò al terapeuta un’attenzione consapevole a tali aspetti e al modo in cui possono incidere sul suo operato. Il conflitto d’interessi è infatti palese: lo psicologo privato si adopera per far star bene il suo paziente ma, se ci riesce, la terapia si conclude col risultato immediato di una perdita economica per il professionista. Queste dinamiche si trovano facilmente anche in ambiti diversi dalla psicologia, basti pensare ad un insegnante di ripetizioni che se riuscirà finalmente nel suo sforzo di far apprendere la matematica al proprio alunno…si troverà con un cliente in meno. D’altro canto si diffonderà la voce che è un bravo insegnante e, a medio-lungo termine, la sua correttezza professionale (auspicabilmente non strumentale) sarà probabilmente ripagata…


Questo articolo, per esigenze di sintesi, non prende in considerazione la miriade di situazioni intermedie (ad es. il privato convenzionato) o le diverse modalità contrattuali (un conto è il pubblico con un contratto da dirigente psicologo, altra cosa con un incarico libero-professionale, un conto è il privato del professionista che lavora nel suo studio, altra cosa se collabora per conto di terzi, ecc.) che possiamo incontrare nella professione e sarebbe interessante affrontare. Non dimentichiamoci infatti che sebbene sia sempre e comunque lo psicologo il responsabile ultimo del suo operato, certe condizioni lavorative – sane o disfunzionali, dignitose o scadenti – sono suscettibili di influire in modo significativo sulla qualità del servizio erogato dal professionista e, di conseguenza, sulle dinamiche descritte.

Concludendo possiamo certamente affermare che il lavoro nel pubblico sgombra il setting dal tema del denaro: lo psicologo non fa (anche) business, non deve (e non può!) preservare o aumentare il proprio fatturato poiché contrattualmente definito. Se ciò può rendere il lavoro terapeutico niente più di quello che è (ovvero una professione di cura e non un’attività imprenditoriale), d’altro canto non è immune dai rischi determinati dall’assenza di un aspetto motivazionale estrinseco (il denaro, appunto) che potrebbe anche incidere sull’impegno messo in campo dallo psicologo soprattutto qualora la retribuzione sia percepita, a torto o a ragione, come eccessivamente esigua.

Mettendo tra parentesi le altre possibili varabili che non abbiamo considerato in questo confronto, è tuttavia evidente come non siano il pubblico o il privato in se stessi garanzia di qualità del trattamento ma è lo psicologo, come professionista e persona, al servizio di un’etica della cura e di una deontologia fari del suo agire professionale.

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