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  • Immagine del redattoreMatteo Limiti

CHE DIFFERENZA C'E' TRA PAZIENTE E TERAPEUTA?

E’ una domanda scontata, in apparenza, eppure apre interrogativi tutt’altro che tali. Prima di vedere che cosa li differenzia potremmo innanzi tutto capire che cosa li accomuna.


Prendendo in prestito un’espressione del filosofo Martin Buber, si potrebbe argomentare che la psicoterapia è innanzi tutto un incontro tra un Io e un Tu (Ich und Du). Proprio in quanto Io e Tu, paziente e terapeuta sono entrambi, ontologicamente, su un piano di parità. Tutti e due sono per la prima volta su questo mondo e stanno cercando di fare del proprio meglio per sé e, al limite, per le persone che hanno attorno. Si presume che a entrambi capiti in una certa misura anche di soffrire e al loro dolore cercano un rimedio. Non è però il grado di sofferenza a distinguere le due figure. E nemmeno il livello di maturità psichica raggiunta: è auspicabile, infatti, che lo psicologo consideri questo un problema sul quale lavorare ma non è affatto detto che un paziente che si rivolge a lui sia meno maturo dal punto di vista psichico o affettivo. Anzi, talvolta uno psicologo cresce insieme al proprio paziente e nel cercare di aiutarlo finisce, in fondo, anche per aiutare se stesso. Come affermava un celebre psicoanalista, infatti, se una terapia funziona alla fine saranno cambiati profondamente sia il paziente…che il terapeuta.



Arrivando insomma all’essenziale, la differenza tra paziente e terapeuta è una differenza di ruolo. Il terapeuta ha un ruolo di cura, che ha sviluppato dopo una lunga formazione teorica e pratica che l’ha portato a conseguire un titolo ed ha inoltre auspicabilmente lavorato su di sé. Che non è di per sé garanzia del fatto che sappia affrontare la vita meglio del suo paziente ma sicuramente lo legittima a quel ruolo di cura che egli mette in campo quando lavora. Questo ruolo, stavolta non più paritario (come lo è dal punto di vista esistenziale) bensì asimmetrico, è la principale differenza tra paziente e terapeuta. Che sono dunque più simili di quanto si possa immaginare, due uomini nella tempesta della vita.

Che la differenza tra paziente e terapeuta sia in primis una differenza di ruolo diviene ancora più chiaro proprio nel caso dei terapeuti per i quali è frequente, oltre che auspicabile, andare a loro volta in terapia. Se un terapeuta “smette gli abiti da lavoro” e indossa quelli da paziente, significa allora che può essere entrambe le cose a seconda del ruolo che assume – focalizzato su di sé (paziente) oppure sull’altro (terapeuta).


Naturalmente perché un terapeuta sia un bravo terapeuta non basta che svolga il ruolo che di diritto (avendo il titolo e le competenze) può incarnare. E’ necessario infatti che utilizzi il proprio essere o essere stato paziente, ovvero “colui che soffre”, per mettere ciò che ha imparato esperienzialmente dalla vita al servizio del suo lavoro. E’ colui che, per utilizzare una felice metafora, ha trasformato la sofferenza dell’ostrica in una perla. Al terapeuta, insomma, il dolore è ciò che dovrebbe aiutarlo ad entrare più in sintonia con il dolore degli altri. Ecco perché un bravo terapeuta cerca di valorizzare sempre le proprie esperienze, anche quelle negative, perché egli non può permettersi di soffrire e basta (ovvero di essere solo paziente) ma gli è chiesto di imparare dalla propria sofferenza, di trasformarla in perla e renderla quindi generativa (diventando, a tutti gli effetti, terapeuta).


Difficilmente farà (bene) questo lavoro chi non ha mai attraverso crisi profonde, non si è posto certe domande, non ha conosciuto talune inquietudini. Ricordo una psicologa, ormai a fine carriera, che mi raccontò di aver avuto la fortuna di formarsi con Cesare Musatti all’Università Statale di Milano: il celebre psicoanalista veneto sosteneva che per essere psicologi bisogna saper camminare sul “crinale”. Se siamo troppo “al di là” non possiamo più essere d’aiuto, scivoliamo giù nel burrone insieme ai nostri pazienti, diventiamo incapaci di distinguere tra noi e loro, di contenere i loro vissuti, di rappresentare un’esperienza di sostegno e di cura. L’essere troppo “al di qua”, protetti da una rassicurante normalità, ci impedisce d’altro canto di comprendere appieno, di sintonizzarci con l’altro in quanto privi di quella profondità psicologica ed emotiva, che non può certamente precluderci anche l’esperienza del dolore, necessaria per fare questo lavoro.


La mia più grande scoperta (e inizialmente delusione), come studente di psicologia e psicoterapia, è stata allora la fragilità dei miei terapeuti o dei miei didatti, il vedere che anche loro, nonostante anni di esperienza e capelli bianchi, avevano ancora delle debolezze. Scoprire, cioè, che nella vita non ci sono mai approdi definitivi e paziente e terapeuta non possono eludere l’imprevedibilità dell’esistenza che apre a sfide costanti e domande sempre nuove. Persino il grandissimo Jung, in una video-intervista (forse l’unica?) che si può trovare su YouTube, confidò senza mezzi termini il suo aver sempre faticato a gestire le emozioni a fronte di una grande padronanza del proprio pensiero…


De-idealizzare il proprio terapeuta (e, forse, la psicologia e la psicoterapia in generale) apre allora veramente a quella possibilità di incontro autentico tra un Io e un Tu che rappresenta, senza alcun dubbio, l’essenza più trasformativa di ogni psicoterapia. Anche perché, riprendendo ancora Jung, possiamo conoscere tutte le tecniche e le teorie ma per toccare un’altra anima dobbiamo essere, semplicemente, un’altra anima.

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