Ho letto di recente il pamphlet di Byung Chul-Han, “La società senza dolore”, e mi sono chiesto quale posto potesse avere la psicologia – che col dolore ha un rapporto notoriamente “privilegiato” – in una società così caratterizzata. Ma partiamo dall’inizio. In estrema sintesi, il filosofo di origini sudcoreane fa una lettura dei tempi odierni focalizzata attorno al tema del dolore sempre più temuto e ostracizzato nonché concepito unicamente in termini negativi. La sua riflessione, che analizza il fenomeno e i suoi sviluppi in seno alla società occidentale, arriva a trovare correlazioni con i modelli culturali attualmente prevalenti basati sui miti della performance, dell’iper-produttività e dell’efficientismo tecnologico che non riservano spazio ad una visione più “spirituale” all’interno della quale anche il dolore possa acquisire un senso. Ma basti pensare anche a questo focus esasperato sulla “positivity” a tutti i costi, che ci spinge subito ad affannarci per risolvere qualsiasi accenno di emozione negativa. Oggi il dolore è allora solo quello che fa male, non che permette di crescere. E’ una debolezza che frena, non il potenziale suggerimento per una nuova strada. Qualcosa da eliminare subito, non da accettare, comprendere e innanzi tutto riconoscere come prova del fatto che siamo vivi e senzienti.
Ma il prezzo che paghiamo per questa “algofobia” – dice bene Chul-Han – non è affatto esiguo. Allontanare a tutti i costi il dolore ci porta ad allontanare la vita, la pienezza del sentire nei suoi saliscendi positivi e negativi. Anche il consumismo odierno - riempiendoci di stimoli e distrazioni - contribuisce a tenerci costantemente impegnati lasciandoci però sovente annoiati, anestetizzati e comunque sia lontani dai nostri bisogni più profondi.
Ma che implicazioni ha tutto ciò per la psicologia?
Con questo sfondo culturale, il rischio da evitare è proprio quello di immaginare la psicologia come un insieme di prestazioni al servizio di questa crescente domanda di anestesia. Una psicologia (o psicoterapia) che prometta di togliere immediatamente il dolore, di guarire in fretta, di estirpare al più presto il sintomo. E non come un processo che innanzi tutto accompagni nella crescita e nella possibilità di sentire di più (il dolore così come il piacere). Mai come oggi, infatti, la psicologia è chiamata proprio a risensibilizzarci, destandoci da un torpore sempre più dilagante. Naturalmente facciamo il possibile per aiutare il paziente a stare meglio ma ciò spesso passa dall’abbandono di una sofferenza ripetitiva e disfunzionale per passare ad una fatica nuova, che abbia invece un valore generativo. Invece la richiesta è quella di non affannarsi troppo (e di fare in fretta perché non si ha tempo da perdere, bisogna tornare a lavorare…e a consumare) – che è coerente con lo sfondo culturale che porta Chul-Han e ci introduce ad un secondo rischio: la farmacologizzazione del dolore. Fermo restando che l’utilizzo di farmaci (e quindi anche di psico-farmaci) è in alcune situazioni estremamente necessario, l’eventualità da evitare è quella di appianare subito la sofferenza, di anestetizzare col farmaco il primo segnale di dolore e quindi di vita…per tornare ad essere perfettamente prestanti e produttivi. Mi viene in mente una frase di Foucault che, in modo profetico, sottolineava come qualsiasi evoluzione farmacologica e scientifica, che forse avrebbe potuto controllare la malattia mentale e i sintomi psichici, mai avrebbe cancellato l’esperienza del dolore in quanto ontologicamente connaturata alla natura umana. Eliminare il dolore significherebbe allora eliminare l’umanità dall’uomo: un’eventualità non solo impossibile ma nemmeno auspicabile.
Insomma, la psicologia deve stare attenta a non inseguire le mode del momento cadendo nella trappola del mercato consumistico: slogan irrealistici e banalizzanti, visioni unilaterali che generano consensi tradendo però la complessità della clinica (ad esempio, ma questo meriterebbe un approfondimento a parte, la caccia al narcisista: come scovarlo, fermarlo, annientarlo, ecc… che, così esasperata, sa molto di nuova caccia alle streghe). L'eventualità da evitare è allora che la psicologia si privi di quella dimensione spirituale (qui intesa, innanzi tutto, come possibilità di un più intimo contatto con se stessi…e quindi, di converso, con gli altri) per appiattirsi sulle richieste del mercato e divenire, infine, l’ennesima distrazione dal dolore: proprio come il luna-park o la nuova serie-tv. Una soluzione che collude con quella visione del dolore che racconta bene Chul-Han: qualcosa che oramai non ha più senso e da cui dobbiamo liberarci al più presto. Ma non è questo ciò di cui abbiamo bisogno: ci serve infatti una psicologia che riattivi il corpo ed il sentire, che ci avvicini alla nostra intimità...e a quella altrui.
Arrivati a questo punto, credo però sia giusto considerare anche una possibile iperbole nella lettura del filosofo sudcoreano: quella di assurgere il dolore quasi a valore. In psicologia si parla a tal proposito di masochismo morale: il fatto stesso di soffrire ha per me una funzione espiatoria e catartica. Ciò permette di appianare un senso di colpa altrimenti intollerabile, magari perché il mio stare bene farebbe male a qualcuno (ad esempio ad un famigliare che ha bisogno di me). Oppure perché soffrire mi fa sentire speciale e migliore degli altri. Il fatto stesso che io scelga di soffrire, mi qualifica come buono. Perché i buoni perdono e soffrono, i cattivi invece vincono e fanno soffrire gli altri. Queste visioni, che trovano una qualche forma di sollievo e di piacere nel dolore appositamente ricercato, sono naturalmente patologiche e, a loro volta, rinforzate da modelli culturali che danno per forza al dolore un valore morale rendendolo altresì accettabile con la promessa di una futura ricompensa premiale (immanente o ultraterrena) oppure conferendo uno status di superiorità a chi, pazientemente, lo patisce.
Quanti danni si possono fare dal punto di vista educativo o terapeutico utilizzando uno stile frustrante, che provochi cioè il dolore per far crescere o fortificare a tutti i costi… Eppure come psicologi sappiamo bene che il dolore non andrebbe evitato, quando c’è, ma nemmeno provocato. Impedire ai nostri pazienti o ai nostri cari di soffrire, significa precludere loro potenziali esperienze evolutive. D’altro canto, buttare in mare aperto chi ancora non sa nuotare può essere estremamente traumatizzante.
Credo infine che la psicologia debba oggi porsi nel mezzo: non prescrivere il dolore ma nemmeno evitarlo, non dare al dolore una prerogativa morale ma nemmeno svuotarlo di senso, attenuarlo (anche farmacologicamente) quando è soverchiante ma non anestetizzarlo. Riuscire ad avvicinare ed integrare il dolore nella nostra vita, come parte dell’esperienza umana, è l’unica strada per provare a comprenderlo ed elaborarlo, a renderlo più tollerabile grazie alla condivisione e quindi a trasformarlo. Una soluzione ben diversa dalla perenne distrazione dal dolore che il consumismo, con i suoi infiniti artefatti, costantemente ci propina.
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